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Testimone del proprio tempo. Tra pagine in cui fischiano le pallottole di cecchini, a tratti buie come un rapimento lontano da casa e dolorose come una ferita sul campo in Kosovo. Erik Messori incarna la vita e i i rischi del reporter e una vita di sacrifici scandita da almeno 50 aerei presi in un anno. E non per vacanza. Parole d’ordine: approfondimento, qualità e “patacca”; emiliano d’origine, ma il suo soprannominato lo deve anche al suo attaccamento alla Romagna. E quando leggerà questa intervista sarà già in Montenegro per, come dice lui, toccare prima con mano per poi prendere la macchina fotografica.

Erik Messori

Erik Messori

Da dove torni?
«Ho raccontato uno spaccato romantico e malinconico di Salsomaggiore terme, la patria di Miss Italia per un periodo importante del dopoguerra. Tutto quello che era Miss Italia e Miss Italia nel mondo è collassato e di quel romanticismo iniziale è rimasto poco. Molti hotel e parrucchieri sono chiusi e molti bar sono in mano a cinesi. Le sfilate sono rimaste, ma, passami il termine, sono “miss autocarrozzeria”. Prima di questo servizio c’è stata l’Albania in mezzo ai trafficanti e coltivatori di droga, in cui non è andata benissimo (Erik infatti è stato tradito da alcune guide e rapito per diversi giorni, ndr), ma a quanto pare Stern pubblicherà il materiale che si è salvato dalle rappresaglie dei rapitori che hanno rotto la mia attrezzatura».

E che lavoro stai preparando?
«Sono in partenza per il Montenegro. Passerò il Natale là. L’argomento è l’aborto selettivo. Anche nel 2017, in quel tipo di cultura se il primogenito è femmina si tende ad abortire perché è il maschio il preferito e c’è questa triste pratica di ricorrere all’aborto anche se il feto è sano. Nessun altro ci investe tanto invece io mi diverto a indagare dove non ci sono fari puntati».

Perché, tra tutti i campi hai scelto proprio il fotogiornalismo, il settore meno sicuro?
«Io lavoravo per riviste di viaggi e cucina. Hotel a 5 stelle, ristoranti, viaggi in tutta Europa con pochi spiccioli. Però se a livello caratteriale sei particolarmente curioso e hai l’attitudine da “cane di strada” inizi a chiedere di più alla tua fotografia. Così con le prime schermaglie etniche in Kosovo decisi di concentrarmi sul fotogiornalismo non per cercare adrenalina; ero passato da dormire negli hotel a 5 stelle alla trincea. È la carriera più rischiosa per sicurezza personale e economica, ma non lo vedo come un aggravante, mi dicevo: voglio farcela nonostante le difficoltà. Sono stato rapito in Albania, arrestato in tre posti del mondo, nel Kosovo mi hanno ferito, ma l’ho sempre visto come uno stimolo per non mollare».

immagine da facebook

Cosa ti spinge ad accettare il rischio?
«Dipende dal carattere, poi è una decisione professionale condita da un pizzico di follia. Non rischio per rischiare, ma per raccontare una fetta di storia contemporanea. Non siamo eterni e ho scelto di essere testimone del nostro tempo; vado in Montenegro per raccontare questo spaccato di vita; il lavoro fatto sull’Ira (esercito repubblicano irlandese, ndr) ancora viva anche se sotto la cenere… Quando una persona è più informata è difficile da manipolare e voglio dare il mio contributo; sono interessato a mettere il naso dove quasi nessuno ci vuole andare. Se mi dicono: “Non andare lì!” mi chiedo “e perché?».

Se non sbaglio è iniziato così anche il lavoro sull’Ira…
«Tutto è partito da un suggerimento: “Non entriamo in quel bar…” e poi è nato il mio progetto più importante che mi ha impiegato per tre anni. Un duro lavoro sull’Ira che rimarrà per sempre. È un pezzo unico, intimistico; ho avuto accesso e una vicinanza esclusiva a queste persone che per motivi naturali sono destinati a venir a mancare vista l’età. Ritengo sia un racconto importante per la storia contemporanea».

Invece se dico “Liscio” cosa dici?
«Se mi dici liscio mi vengono le lacrime. È un mondo fantastico, un amore adolescenziale quando si facevano le prime vacanze in Romagna. Il mondo del liscio è uno spaccato della cultura italiana e un tratto forte di quell’Italia che si è fatta conoscere nel mondo. I romagnoli sono riusciti a trasformare un ballo “povero” in un fenomeno nazionale… Romagna mia è famoso nel mondo. Il lavoro mi ha impiegato un anno e è stato pubblicato sul national geographic; ho documentato competizioni, balere, la festa di paese e anche una tourné con l’Orchestra Grande Evento di Moreno il biondo. Come dice Giacobazzi, “il romagnolo è una bestia ignorante” perché avete una spinta ulteriore e lo dico da fiero emiliano». APPROFONDISCI QUI

immagine da facebook capta

La storia che ti ha stupito di più?
«La storia con un divenire importante è quella degli Human pups (una comunità in cui queste persone si credono cani, ndr). Pensavo fosse un’attitudine loro per sfuggire alla noia invece scopri una condizione umana, una vera sorpresa lavorandoci dall’interno. Poi tutte le storie se le vuoi affrontare dall’interno ti coinvolgono». APPROFONDISCI QUI

E il posto in cui non tornerai mai più?
«Chernobyl. È alienante, il primo disastro tecnologico della nostra storia. Non ero in mezzo ai pericoli soliti che vedi e accetti; lì vedi le conseguenze, non il pericolo. Il cervello umano fatica ad assorbirlo… vedi bambini che hanno la leucemia e l’impatto della natura dopo la catastrofe ma è tutto silente. Mi chiedevo: “Quello che tocco, vedo, mangio e respiro cosa farà in me?” Poi dal lavoro è scaturita anche una mostra con raccolta fondi per una realtà del posto». APPROFONDISCI QUI

Quali sono stati i tuoi mentori?
«Uno dei miei mentori è James Nachtwey, l’ho incontrato di persona anche se l’ho vissuto come il pischello davanti a un mostro sacro. Poi ho studiato con Koudelka, ho fatto un workshop con Gianni Berengo Gardin e ho avuto una formazione diversa da quella di chi oggi deve fare i conti con internet che fa girare tutto veloce. Ricordo ancora che a quei tempi usavo il rullino e mi segnavo tutti i dati di ogni fotogramma… era un altro modo di lavorare».

Usare la pellicola oggi ha un senso?
«La pellicola è un supporto, il fine è l’immagine. Io la uso per il bianco e nero perché è una cosa talmente personale che ha bisogno di tempo, maturazione del progetto, sviluppo, stampa… Io consiglio di lavorare come se si usasse la pellicola quindi ragionare l’immagine prima di scattare e di non guardare il monitor dopo aver fatto una foto delicata perché l’empatia che si è creata si perde drasticamente. E poi consiglio di usare ottiche fisse perché si impara a “girare” attorno al soggetto ad avvicinarsi o allontanarsi».

Erik Messori e Annecristie Badiu di Capta

Sei uno dei fondatori del collettivo Capta (capta-images.com), perché questa scelta?
«Oggi direi che la formazione di un collettivo è fondamentale perché a un fotografo si chiede di essere un bravo commerciale, un bravo giornalista un bravo fotografo e di saper fare i video. Devi essere un one man band! Ma così, per quanto mi riguarda, credo che il livello qualitativo della storia e del proprio lavoro si abbassi. Quando lavoravo da solo per agenzie riuscivo a dedicare solo il 30% del mio tempo alla fotografia, il resto era dedicato ad altro come la promozione, il reperimento dei fondi, i tentativi di vendita. In Capta ognuno ha dei compiti ben definiti che dipendono dalla propria formazione e tra questi c’è anche la parte educational. Siamo stati definiti il collettivo più attivo in Italia e non solo e per il 2018 abbiamo tre importanti eventi (ECCOLI A QUESTO LINK). Queste attività e questa mole di lavoro non sarei riuscito a realizzarla da solo. Credo molto nel lavoro di squadra, detto ciò non voglio sminuire il lavoro di chi si muove da solo o fuori dai collettivi».

Alessandro Mazza

Alessandro Mazza

Mi piace farmi gli affaracci vostri!

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