di Melissa Sarpieri
Sono mariti, mogli, fratelli o sorelle. Sono volti sconosciuti ai telegiornali, ma abbiamo imparato a definirli con tre parole: “angeli con il camice bianco”. Sono loro, senza dubbio, i protagonisti di questo anno bisestile.
Al lavoro nella trincea degli ospedali, con il viso segnato dalle mascherine e la fronte sempre umida per il sudore, gli operatori sanitari rappresentano oggi il nostro unico baluardo contro la pandemia. Stefania – 43 anni di Cesenatico – è una di loro.
Per arginare l’emergenza Covid-19, lavora sette giorni su sette, dalle 7,30 del mattino alle 16.30 del pomeriggio orario continuato in una struttura privata nel comprensorio del Ravennate. Non ci sono domeniche, Natali, Pasque, ponti o weekend. Nulla, in questo momento, può distoglierla dalla responsabilità di assistere, ogni giorno, i suoi ragazzi, 36 pazienti tra uomini e donne – dai 18 ai 65 anni – affetti da disabilità psichiche e fisiche (a volte entrambi).
Nella struttura sanitaria ravennate, Stefania è una delle responsabili. Lei, in particolare, è l’addetta alla cucina e ai vari ordini necessari allo svolgimento delle attività ludiche e ricreative del centro. I “suoi” ragazzi, come li chiama lei, vengono assistiti, di solito, per qualche mese, ma alcuni sono lì da oltre vent’anni. Impossibile non affezionarsi.
Stefania, in questo particolare momento, come si è modificato il tuo lavoro all’interno della struttura?
“Col dilagare del Covid-19 la vita dei ragazzi all’interno del centro è cambiata. Io e i miei colleghi (siamo sei per turno per un totale di trenta collaboratori totali) abbiamo dovuto attenerci alle nuove disposizioni organizzative, chiudendo il centro diurno ricreativo, che si trovava all’interno della residenza, e riunire tutti i ragazzi nel salone, dove in questi giorni trascorrono il loro tempo insieme. Cerchiamo di accompagnarli, senza traumi, in una nuova dimensione fatta di appuntamenti scanditi da merende, disegni, giochi o racconti che li aiutino a riappropriarsi della certezza di una routine che per loro era fondamentale. Per questo genere di pazienti, infatti, i punti di riferimento, la sicurezza delle ore trascorse tra impegni prestabiliti, che si ripetono puntualmente nel tempo, è un aspetto basilare perché garantisce serenità e stabilità e, dunque, equilibrio. Per noi è stato difficile, in questi giorni, vederli spaesati e insicuri, perché i ragazzi sono molto abitudinari ed hanno bisogno di percorsi assistenziali chiari e definiti”.
Sono consapevoli di quello che sta accadendo attorno a loro?
Più o meno sì, anche se, per ora, non possono ricevere visite. L’unico contatto con i famigliari avviene tramite cellulare, quando a fine giornata si video-chiamano accertandosi del loro stato di salute. Abbiamo smesso di far vedere loro la televisione perché alcuni hanno manifestato chiari segnali di preoccupazione per i propri cari che vivono al di fuori della struttura. Altri sono semplicemente tristi per non poter ricevere la visita del babbo con i souvenir dell’ultimo viaggio, delusi per la negazione di un pacchetto di sigarette come ‘premio’ della buona condotta o sconsolati perché privati del regalo per il compleanno appena passato o prossimo da festeggiare. Sono come i bambini che percepiscono il pericolo che aleggia nell’aria, ma che sentono lontano perché credono che non possa arrivare fino a loro, che non li possa toccare”.
Quali sono i mezzi che adottate per proteggerli?
“Purtroppo, a parte i guanti in lattice ed i vari metodi di sanificazione degli ambienti, come tante strutture, non siamo riusciti a reperire nuove mascherine. Così, l’altro giorno, io ed una mia collega abbiamo preso dei lenzuoli di cotone bianchi, li abbiamo fatti bollire e le mascherine ce le siamo cucite da sole. La prima volta che le abbiamo indossate, ci hanno chiesto se stavamo bene. Abbiamo riso tutti insieme, è stato bello perché ultimamente non succede spesso. Insieme ai miei colleghi adottiamo tutte le precauzioni possibili per tenerli al sicuro da un virus che, se entrasse nella casa, creerebbe grossi problemi. Molti dei miei ragazzi, già debilitati da patologie pregresse, non sopravviverebbero, il virus me li porterebbe via”.
Hai paura Stefania?
“Sì, ho molta paura. Ho paura per queste creature così indifese e deboli e ho paura per me stessa. Penso a mio marito, ai miei tre figli che, all’inizio del mese, mi hanno aiutato a fare la valigia che viaggia con me ogni giorno nel portabagagli dell’auto. Ho spiegato loro che, se qualcuno in residenza dovesse risultare positivo al virus, la mamma sarebbe obbligata a rimanere in quarantena nella struttura, lontana per un po’. Ogni mattina mi vedono varcare la porta di casa e si chiedono se la mamma questa sera tornerà per cena”.
Stefania è un’eroina dei nostri giorni. Al lavoro porta con sé la responsabilità e il senso di protezione innato dentro ogni mamma, quella forza che si nasconde nel profondo di ogni donna. E’ la forza che ci muove ogni giorno, quella che ci fa indossare quel camice bianco come fosse il mantello di un supereroe. O le ali di un angelo. Un angelo con il camice bianco.