Secondo i giudici del collegio – presieduto da Cecilia Calandra – l’impronta mafiosa emerge chiaramente, anche in assenza di una vera e propria associazione a delinquere e nonostante il numero ristretto delle vittime, tutte appartenenti a un limitato gruppo di imprenditori. Nei documenti processuali scorrono esempi che i magistrati definiscono “ampiamente rappresentativi” delle persone offese: travolte da un intreccio di fallimenti pilotati, intestazioni fittizie, operazioni di riciclaggio, estorsioni, aggressioni, sfruttamento lavorativo, minacce e violenze fisiche. Un quadro che sintetizza le principali contestazioni mosse dall’accusa. Queste le motivazioni depositate del processo Radici.

Tutte le vittime, tuttavia, hanno scelto di non costituirsi parte civile nel processo, una decisione che – come evidenziano i giudici – “non è priva di rilievo”. A prendere simbolicamente il loro posto in aula, i nomi delle imprese coinvolte nei fallimenti: Dolce Idea, Forno Imolese, danneggiate da operazioni opache e intimidazioni sistematiche. E, con loro, anche i territori lambiti da queste attività illecite: Cervia, Cesenatico, Imola, Bagnacavallo.

Uno degli episodi risale al 2019, quando un commerciante di Cervia, nel tentativo di recuperare i macchinari da pasticceria affidati al laboratorio di via Levico, si sentì minacciare con parole nette: “Io piuttosto che ridarti indietro l’azienda te la brucio con la benzina”. Dopo quella frase, riferita dalla vittima, seguì uno schiaffo e un’ulteriore intimidazione.

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Emergono poi episodi di sfruttamento lavorativo avvenuti nel 2018 in alcuni esercizi di ristorazione di Cesenatico, tra cui “All Fish” e “Il Chioschetto”. Qui, secondo quanto ricostruito, i dipendenti sarebbero stati sottoposti a turni massacranti – fino a dodici ore consecutive – senza il riconoscimento di giorni di riposo o ferie, retribuiti con compensi irrisori e costretti a subire pressioni psicologiche pesanti. Le testimonianze parlano di umiliazioni a sfondo sessuale e continue minacce di licenziamento.

I giudici sottolineano, inoltre, il forte disagio mostrato da una delle persone chiamate a deporre: si tratta del dirigente dell’ufficio tecnico comunale, che – a sei anni di distanza dagli episodi contestati – ha chiesto espressamente che la sua testimonianza non venisse ripresa dalle telecamere presenti in aula.

Ecco infine i nomi che per anni hanno aleggiato come presenze ingombranti: prestanome, faccendieri, figure ambigue pronte a rendersi utili. Le condanne più severe: 13 anni e 3 mesi di reclusione, accompagnata da una multa di 12.050 euro, fino a pene comprese tra i 2 e i 4 anni di reclusione.

Anna Budini

Anna Budini

Anna Budini scopre il mondo del giornalismo nel 2004 nella redazione de La Voce di Romagna. Ha poi l'occasione di passare ai settimanali nazionali, inizia così a scrivere per Visto, ma nonostante la firma sul nazionale, scopre che la sua grande passione è la cronaca locale. Dal 2016 ha iniziato a scrivere per il Corriere della Sera di Bologna.

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