Abbiamo raccolto la storia di Antonio Casali, attraverso il fratello Gildo, pervenuta alla nostra redazione: una storia, anche, di amore per Cesenatico.
“Mi chiamo Antonio Casali, sono nato a Cesenatico nel 1940 e lì ho vissuto fino all’età di 25 anni.
Della mia infanzia ricordo soprattutto la grande miseria che avevamo in famiglia: mio babbo faceva il pescatore e mia mamma la pescivendola. Abitavamo in via Succi n° 8. Mi ricordo quella casetta piccola a un piano nella quale abitava anche mia nonna paterna Ernesta, ma la chiamavano Ciribina.
Prima che nascesse mio fratello Gildo io ero il più piccolo degli altri due fratelli Berto e Mirvia e quando c’era qualcosa da ricevere era sempre per loro, mai per me. “Cosa vuoi, tu sei piccolo gli altri sono grandi”- diceva mia madre. Nove anni dopo quando è nato mio fratello Gildo l’attenzione era tutta per lui “Cosa vuoi, tu sei grande, lui è piccolo” – ripeteva, cambiando l’ordine dei fattori.
I vestiti che erano dismessi dai miei fratelli maggiori passavano a me. Portavo le scarpe col “mezzo tacco” e il cappotto con lo spacco dietro di mia sorella; i pantaloni di mio fratello accorciati nelle gambe diventavano dei pantaloncini per me. Credo di aver indossato solo pantaloni corti fino ai 16 anni. Naturalmente mi vergognavo ad indossare gli abiti dismessi dei miei fratelli ma non c’erano alternative!.
Da bambino con i miei coetanei andavamo spesso a fare i tuffi nel porto canale davanti alla casa di Marino Moretti e, immancabilmente, per lo schiamazzo che facevamo usciva dalla casa Ines, la sorella del poeta, per esortarci ad andare via perché disturbavamo il riposo del Maestro ma in realtà lui amava la nostra presenza.
La mia famiglia è conosciuta come Casali dei Patachin, soprannome attribuito al mio bisnonno Poldo piccolo e attaccabrighe.
Avevamo una piccola barca a vela, era una lancia che si chiamava “Iride” dal nome di mia madre”.

“Devo dire che è dalla fine della scuola elementare, avevo 11 anni, che tutto è cambiato nella mia vita: cominciavo ad essere “grandicello” ed era tempo che contribuissi all’andamento della casa “dovevo aiutare a tirare avanti la baracca” così mi fecero smettere di andare a scuola per imbarcarmi a bordo della nostra barca con mio fratello Berto di 5 anni più grande e mio padre.
Ogni sera si salpava dopo la mezzanotte e si pescava fino a mezzogiorno circa per poi rientrare in porto e vendere al marcato il poco pesce pescato.
Per tutto il tempo della pesca soffrivo di mal di mare e rimettevo continuamente.
Mangia! – mi dicevano, che se vomiti almeno hai qualcosa da rimettere, così mangiavo e rimettevo, rimettevo e mangiavo. Rientrati in porto come mettevo i piedi sulla banchina mi sembrava di essere ancora in alto mare tanto era precario il mio equilibrio dovuto al rollio della barca che mi durava fino alla successiva uscita in mare. Così ogni volta!!!!
A bordo avevo soprattutto l’incarico di avvistare i delfini perché la loro presenza era un pericolo per la pesca. Alcuni marinai portavano con sé una doppietta con la quale gli sparavano appena li vedevano.
Il delfino aggrediva il “sacco” nella parte posteriore della rete dove si raccoglieva il pesce e rompendolo causava la fuoriuscita del pesce pescato.
Così con gli occhi fissi sul mare scrutavo la loro presenza gridando: “i dulfain!, i dulfain!” (i delfini! i delfini!), appena li scorgevo. Sempre naturalmente col mal di mare.
Un giorno mentre ero intento ad aiutare mio fratello e mio babbo a ridipingere la vela, ricordo che c’era anche mia mamma, venne a farci visita il Presidente della Cooperativa dei Pescatori il Sig. Benzoni (babbo del poeta Ferruccio) che, vedendomi con quell’aspetto malaticcio e indicandomi ai miei genitori disse loro: “non vedete che questo bambino si muore se continuate a mandarlo in mare; è tanto bravo a disegnare mandatelo ancora a scuola”. A malincuore gli diedero retta intimandomi, però, che se non ero promosso sarei ritornato a fare il pescatore” …..
