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a cura di Gianni Briganti

Gianni Briganti

È stato definito senza troppi eufemismi il “violinista del diavolo”, una nomea che gli è stata attribuita grazie a vicende, alcune reali e altre meno, del tutto particolari. Si ammalò di morbillo all’età di 6 anni e morì. O meglio vi andò molto vicino; si risvegliò solo durante la sua messa funebre, sfuggendo per poco alla sepoltura. La sua abilità nel suonare il violino, ottenuta in realtà grazie a una lunga pratica fin da bambino, è stata da molti attribuita a un patto col diavolo. Già da ragazzo era in grado di imitare fedelmente i versi di asini, galline, gatti e cani col suo strumento.

Il suo aspetto, magrissimo, pallido, con gli occhi incavati e lunghi capelli neri sulle spalle, non solo dava la sensazione di avere di fronte a sé un demoniaco scheletro ma veniva anche calcato con un abbigliamento corvino. Le sue mani, estremamente mobili, vennero definite da alcuni medici come dei “fazzoletti appesi all’estremità di un bastone” e pareva che le sue falangi potessero muoversi lateralmente. A coronamento di degna fama possiamo aggiungere che compose un’opera denominata “Le Streghe”, tra quelle che suonava più spesso c’era “Il trillo del diavolo” di G. Tartini (brano preferito da Dylan Dog, ndr), si iscrisse alla massoneria verso i 26 anni e rifiutò in punto di morte l’estrema unzione, a 57 anni, con conseguente sepoltura per diversi anni in terra sconsacrata. Si costruì uno stile dark ante litteram e se ne giovò abilmente per diventare una vera e propria star del suo tempo.

Nonostante il suo aspetto non proprio appetibile (era pure quasi sdentato a causa di cure a base di mercurio) Niccolò Paganini aveva molto successo col gentil sesso collezionando negli anni un numero considerevole di amanti, tra cui donne sposate e minorenni. Le voci di popolo dicono che proprio una delle sue amanti si fosse immolata a tal punto da farsi uccidere per donare le sue interiora per la realizzazione delle corde dello Stradivari di Paganini; si sosteneva in sostanza che il violino fungesse da ponte tra l’artista e il regno dei morti.

La sua fama lo porta a tenere concerti in diverse città Italiane alternando virtuosismo sul palco e sregolatezza nella vita privata, fino a entrare in servizio come primo violino e direttore a Lucca presso la sorella di Napoleone, Elena Bonaparte Baciocchi, tra il 1805 e il 1809. Tuttavia l’ambiente di corte non fa per lui e l’anno successivo decide di ripartire per calcare i teatri di altre città come artista indipendente; sceglie di lasciare la Toscana e di puntare verso la Romagna. A iniziare da Cesena.

Questo periodo della vita di Paganini, quasi ventottenne, presenta purtroppo un vuoto di documenti o epistole che possano descriverci quei momenti; tramite testimonianze indirette possiamo tuttavia cercare di raccogliere ogni elemento a nostra disposizione. Come riportato sulla cronologia stilata da Pietro Berri nel suo “Paganini: la vita e le opere”, l’esibizione al “teatro antico di Cesena” avvenne il 29 e il 30 agosto 1810. Il luogo in questione è il Teatro Spada, ovvero l’edificio che nei decenni successivi verrà demolito per poi fare spazio all’attuale teatro Bonci.

Scrive Matteo Rampin nel suo libro “Mozart era un figo, Bach ancora di più”: “Entrava in scena vestito completamente di nero, il volto cadaverico, gli occhi protetti da un paio di occhiali dalle lenti blu, i lunghi capelli spettinati, l’atteggiamento sbilenco, le braccia lunghissime; iniziava a suonare con movimenti legnosi da marionetta. Eseguiva passaggi talmente difficili da essere rimasti impraticabili fino a pochi decenni fa, a velocità strabilianti e ‘impossibili’, e sempre con un’intonazione perfetta”.

Giovanni Maroni, nel suo libro su Cesare Montalti (ed.Il Ponte Vecchio), racconta come il violinista in quelle due serate “mandò in visibilio il Teatro Spada strapieno”. Descrive una platea traboccante dell’alta società cesenate accorsa per ascoltare il virtuosismo delle sue “quattro mani”, alludendo esplicitamente al favoleggiato patto col diavolo.

Maroni ipotizza anche il cartellone della serata desumendolo da una poesia scritta dal nobile cesenate Eduardo Fabbri e dedicata proprio a Paganini. Scrive Maroni: “Forse con alcuni dei Capricci (richiestissimi il n.9, La caccia, e il n.13, La risata) Paganini eseguì la Scena amorosa, dialogo tenero e sentimentale, in cui alle dolci parole seguivano i trasporti della gelosia, grida di gioia, di collera, di dolore e di felicità. Ma il momento culminante della “Accademia vocale e strumentale” fu “la sonata con variazioni sulla sola quarta corda di violino, con accompagnamento a grand’orchestra”, pezzo di bravura, intitolato Napoleon e ben scelto nell’anno del matrimonio imperiale”. Il matrimonio in questione è quello delle seconde nozze di Napoleone con Maria Luisa D’Asburgo, avvenute proprio nel 1810.

Non deve stupire l’apparentemente anomala “sonata con variazioni sulla sola quarta corda”; si dice infatti addirittura che Paganini, accidentalmente o volutamente, rompesse una ad una le corde del suo violino nell’impeto delle sue esibizioni, terminando i concerti suonando in modo ineccepibile anche solamente sull’ultima rimasta.

Per quanto riguarda infine la suddetta poesia del nobile letterato Eduardo Fabbri, venne riportata per intero sul quotidiano cesenate “Il Cittadino” del 1 giugno 1890 in occasione dei 50 anni dalla morte del grande violinista. Si intitola semplicemente “Per Paganini” ed è stata scritta nel settembre 1810, quindi pochi giorni dopo aver assistito alla sua esibizione cesenate.

PER PAGANINI

Di Pindo e di Permesso
Su l’odorata riva,
Certo costui nutriva
A l’arti de la cetra Apollo istesso;
O di novella Dafne il dio su l’orme,
Riveste umane forme.

Tocca di cavo legno
Brevi corde ineguali;
E, del piacer su l’ali,
Ecco armoni, che a’ dardi suoi fa segno,
Varia di tempre, e grave e acuta e molle,
Le vene e le midolle.

Quanto desira invano
Stuol d’accorte sirene
Su le magiche scene,
Vincer l’alma del canto, ei con la mano
Lieve plettro agitando ottien felice.
Da gli occhi intenti elice

Il Pianto; indi, a vivace
Estro disciolto il freno,
Metro sveglia sereno,
E a’ turbati pensier rende la pace;
A quanti stanno a tal prodigio accolti
Brillan di gioia i volti.

O di Bellona il canto
Con fera voglia imiti,
Od in suoni più miti
Renda di Progne il mestissimo pianto,
A sé rapisce, e l’ira e il duol commove,
D’incredibili prove.

Quanti sospiri e quanti
S’udian volar d’intorno
A le logge, soggiorno
Di vaghe dame e di leggiadri amanti!
A le belle adirate il suono eletto
Placò l’ira del petto;

Ed in benigno riso
A’ giovani dolenti
Aprir soavi accenti
Con languid’occhi ed infiammato viso.
Taccia omai Grecia suoi vantati modi;
Sol questo Italia lodi.

D’Adria il flutto sonante
A noi vicino freme;
Già di nocchier non teme
Chi pareggia Arion fede incostante:
Salga costui la nave e lasci ardito
D’Ausonia il curvo lito;

E, de l’Egeo ne l’onde,
Cerchi l’isole dove
Notturna i passi move
Saffo ognor lamentosa e altrui risponde;
“Tardi” le dica “io venni, apprendi come
Ogni aspro cor si dome.”

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