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a cura di Federica Gualdani

«Non posso dire di ricordare perfettamente le emozioni che provavo. E non per mancanza di memoria. È stato un subbuglio di emozioni:  gioia, entusiasmo, sorpresa. Eravamo  tutti davanti ad un bivio. Due strade completamente diverse. Se gli altri potevano essere frastornati o confusi… pensate come dovevamo sentirci, noi donne! Per la prima volta potevamo far sentire la  nostra voce».

2 giugno 1946. Quante parole si possono dire, citando semplicemente una data? A quante cose si pensa. Alle persone che riempiono le  piazze. Al grido unanime: “È nata la Repubblica!”. Al tricolore gonfiato dal vento. Ai giornali che annunciano la  notizia. Ma questa data è storica anche per un altro motivo. Un evento che segna un prima e un dopo per la nazione. Maria Tassinari in Garavini, per tutti “nonna Maria”, 97 anni, ci racconta il “suo” 2 giugno. Il giorno in cui lei e le donne hanno potuto votare per la prima volta.

«Non sapevamo esattamente come farlo, ma lo avremmo fatto in ogni caso. Eravamo importanti. Di più: eravamo libere. Stavamo vivendo un momento che sarebbe rimasto nella memoria. E, al contrario di quanto si possa pensare, ce ne rendevamo conto. Pienamente. Eravamo appena riemersi da un periodo di totale rottura. In cui occorreva tirarsi su con la propria forza. Obbligati a  tenere la vita salda tra i denti: se avessimo allentato la presa anche solo per un istante, avevamo la sensazione che ci  sarebbe scivolata via».

 
 
 
 

“Eravamo forti. E, va detto, abbiamo avuto tante occasioni per dimostrarlo. Ma, allora più che mai, ci sentivamo parte di qualcosa di grande. Una nazione. Intera, vera e propria. Dopo la dittatura avevamo voglia di tornare a essere considerati cittadini. Non più sudditi. E, finalmente,  avevamo lo strumento democratico per mutare la nostra condizione. Quel giorno stavo male. Fisicamente, intendo. Ero stata appena operata di appendicite e, per forza di cose, mi trovavo costretta a letto. Pensavo che non avrei potuto prendere parte alla votazione. E invece mi sbagliavo”.

«Alcuni amici, che sapevano bene quanto fosse importante per  la mia famiglia, mi sono venuti a prendere. Mi hanno portata alla scuola elementare, sede del seggio. Lì, in quel piccolo edificio di una frazioncina dispersa nelle campagne, ho espresso il mio primo voto da giovane adulta.  Ecco, non so se mi spiego. L’espressione di un’opinione può sembrare scontata, oggigiorno. Provate a pensare a cos’è stato quell’istante per me. E per tutti quelli che, fino a quel momento, non avevano avuto nemmeno un’occasione per esporsi. Un atto veloce. Agile. Silenzioso. Ma, in realtà, racchiudeva un grido acutissimo di libertà. Se mi fosse chiesto di definire la libertà, probabilmente mi passerebbe davanti agli occhi l’immagine di quella scuola».

«Devo dire per cos’ho scelto o è troppo scontato? Dai, facciamo le cose per bene: manterrò il “segreto” fino in fondo. A volte, ne sono convinta, ci capita di pensare di non avere tempo da dedicare alla Storia. Che dobbiamo vivere nel presente. Ma, ahimè, bisogna accettare l’idea che, senza quel passato, saremmo ben poca cosa».

Potrebbe sembrare la sceneggiatura di un film. Meglio: potrebbe essere scambiato per la strofa di una poesia. Ma è di più. Molto di più.  Si tratta di Storia. Storia vera, pulsante, viva. Un passato che percepiamo lontanissimo.  In realtà è dietro l’angolo; riemerge in continuazione. Storia talmente concreta che, ancora, può essere narrata da chi l’ha vissuta in prima persona.

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