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a cura di Gianni Briganti

Gianni Briganti

Gianni Briganti

Nella prima parte dell’articolo (leggi qui) viene illustrato il processo che ha portato all’autonomia Comunale di Cesenatico così come al desiderio di una rivoluzione che sfocia nella costituzione di società segrete della Carboneria anche in Romagna. Tuttavia il periodo carico di ideali ma, evidentemente, di incapacità rivoluzionaria porta con se aneddoti a dir poco esilaranti; la rivoluzione di Forlì del 1831, seguita a quella di Bologna, venne ad esempio autorizzata, legalizzata, dal pro-legato ovvero dal vescovo cittadino, che ne nominò anche la commissione provvisoria di governo. Il rappresentante del potere papale autorizzava quindi la rivoluzione contro di lui avendo però lui stesso cura di nominarne i reggenti, il tutto come fosse cosa normale per una sorta di transizione “soft”.

Ogni desiderio di cambiamento venne però soffocato dall’arrivo delle truppe austriache che affrontarono senza troppe difficoltà dei rivoluzionari male equipaggiati e male addestrati, dando quindi soccorso al pieno ritorno dell’autorità papalina. Ancora più comico fu il tentativo Riminese di rivolta del 1845 capeggiato da Pietro Renzi, beneficiario anche della diserzione di tantissimi fucilieri pontifici; preso il potere, in un clima di incertezza per il continuo capovolgimento di fronti, molti componenti del nuovo consiglio cittadino non si presentarono alla convocazione. I concittadini non furono infervorati dalla causa; semplicemente ne presero atto. Neppure le città vicine sembravano provare scatti di orgoglio dall’esempio Riminese. In un clima quasi di indifferenza generale, Renzi si rifugiò a San Marino restituendo il potere al governatore distrettuale; i ribelli, molto tranquillamente, se ne tornarono alle loro case e i fucilieri alle loro caserme. Tutto come se nulla fosse successo.

I giochi si sbloccheranno solo dopo la battaglia di Magenta del 1859 quando gli Austriaci, di fatto i guardiani in Romagna a supporto dello Stato Pontificio, verranno 138_1_grande_vittorio_emanuele__800_800sconfitti dai Piemontesi e costretti alla ritirata assieme ad alcuni ex governatori al seguito per tentar di salvar la pelle.
E’ durante questo momento, storico per la nostra terra Romagnola, che viene composto un gruppo cinque commissari; per far cosa? Forse per istituire finalmente il Libero Stato di Romagna? Forse per nominare i governatori delle ex Legazioni? Forse per redigere una costituzione locale? No; per offrire a re Vittorio Emanuele la dittatura della Romagna.

Certo il Regno Piemontese era oramai determinato a portare avanti l’unificazione e prima o poi sarebbe comunque arrivato il nostro turno; lodevole il tentativo di transizione senza spargimento di sangue. Tuttavia, specie dopo la fondazione della Giovine Italia mazziniana a seguito dell’evidente fallimento della Carboneria, gli ideali locali propendevano per una trasformazione in senso repubblicano e non certo per il mero passaggio da un sovrano a un altro; ebbero la meglio i liberali filo-sabaudi che, anche dopo la caduta del potere temporale, ad esempio a Cesena tenevano ben saldo il potere politico (vedi R.Casalini in “Storia di Cesena”). Offrire incondizionatamente la testa della Romagna al Re ha quindi il sapore amaro di una resa immediata e totale da parte dei nostri rappresentanti di allora.

Re Vittorio Emanuele rispose di far avallare tale richiesta di sudditanza da Napoleone III, in buona sostanza il padrino della campagna piemontese. Fu così che nel luglio del 1859 Massimo D’Azeglio venne quale Commissario Straordinario, per dare atto all’annessione formale della Romagna al Regno del Piemonte, e quindi al futuro Regno d’Italia, senza colpo ferire ma passando semplicemente poi per il plebiscito del 1860, riservato a uomini con più di 25 anni e che pagassero almeno 40 lire di tasse all’anno. Una conferma riservata quindi solo a una parte della popolazione (a Cesena votarono 6700 persone su quasi 34.000 residenti) e vinta con percentuali bulgare che, molto probabilmente, non furono indenni da brogli.

Massimo-dAzeglio-tmbCosa ottenne la Romagna da tanta generosità e da tanto spirito patriottico d’unità peninsulare? Una politica di rigoroso controllo, una repressione inflessibile e, non da ultimo, l’annessione post-unitaria all’Emilia, fusione a freddo che non ha mai avuto né riferimenti storici né culturali di riferimento, ma necessaria per stemperare e rendere minoritari gli animi repubblicani locali nella prevalenza filo-monarchica delle province ad ovest di Bologna.

Torno infine alla domanda iniziale: qual è la caratteristica che accomuna l’ottenimento dell’indipendenza di Cesenatico da Cesena, gli ideali di libertà della Carboneria e la richiesta di autonomia regionale della Romagna? Nessuna… ovvero: nessuna indipendenza può definirsi tale se è calata dall’alto, specie se data per mero interesse di chi la concede. Nessuna libertà è effettiva se il popolo non combatte per conquistarla. Nessuna vera autonomia verrà mai raggiunta se se ne delega ad altri, fossero pure enti di livello superiore, il compimento. Ce lo insegna la nostra storia locale e ce lo confermò anche Napoleone quando, dietro all’apparenza di ideali di libertà, scrisse in segreto: “Non lasciate ch’essi (cioè i territori italiani conquistati) dimentichino che io sono il padrone di fare ciò che voglio. (…) Ciò è necessario per tutti i popoli e soprattutto per gli italiani che non obbediscono che alla voce del padrone (…).”.

Postfazione: solitamente, la domenica successiva alla pubblicazione di ogni articolo, Renzo Baredi mi fermava per darmi la sua opinione su quanto avevo scritto; a volte erano critiche, a volte erano complimenti ma c’era sempre e comunque uno sprone a continuare. Questa volta non potrà avvenire nulla di ciò ma sono sicuro che questo articolo, a lui, sarebbe piaciuto da matti. Ciao Renzo.

Alessandro Mazza

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